Archivi tag: cè chi dice no

Megaloman

Siete capaci di gettarvi davanti a un proiettile vagante per me? Di concepire l'urgente necessità di un sì di fronte alla degradazione consapevole di un'incoercibile implorazione? Di non farmi solo domande di cui sapete già la risposta? Di capire me invece di recriminare perché io non ho capito voi? Di cogliere, naturalmente solo in situazioni circoscritte e occasionali, la possibilità di una felicità che sia alle strette dipendenze della mia? Di prendermi e piazzarmi al primo posto della vostra personale classifica invece che al secondo o al terzo, perfino con l'umiliazione di un eventuale pari merito, con conseguente effetto Toto Cutugno al festival del sentimento? Di non darvi pena, ma di alleviare le mie pene? Di sudare freddo? Di non giocare a palla avvelenata con i sensi di colpa? Di pendere dalle mie labbra? Di non cercare l'uscita di sicurezza sulla piantina del palazzo? Di essere il mio specchio? Di elaborare sofisticate strategie per convincermi di essere l'unico e il solo? Di non darvi pace? Di contorcervi nel letto come Juliette nell'Atalante? Di non confidare nel potere taumaturgico di un'incerta reiterabilità? Di perdere il controllo? Di non sperare che non ce ne sia bisogno?
Solo questo vi chiedo. Io per voi sì, ne sarei capace, e dunque ho tutte le carte in regola per consigliarvi di non cascarci.

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Maps

Non suono la chitarra e non ho mai avuto i capelli lunghi, ma anch'io sono intelligente e ironico, eppure allora non eri «coinvolta mentalmente» come adesso. Ho gli occhiali, con tutta probabilità meno spessi dei suoi. Sono più alto, pur se relativamente, e perfino più giovane. Anche di te. Non canto «in modo attraente», anzi, non canto affatto, ma è pur vero che non ho neanche la scucchia. Entrambi vestiamo nello stesso modo ordinario: qualsiasi magister elegantiarum potrebbe testimoniarlo. Ti cerca, ti vuole, ti circonda di attenzioni e sta per innamorarsi di te. Dimmi, questa volta dov'è la differenza? Mi hai sempre detto che non ti davo sicurezza, che non sarei mai stato il primo uomo che avresti chiamato se fossi rimasta in panne su una strada deserta. Ma almeno sono un uomo, io. E ora ho il dubbio che sarebbe bastato regalarti una tessera Aci.

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Desire lines

Fuma, fuma tutte le sigarette che sei mesi fa hai acceso solo per colpa sua, incendiati i polmoni in questa piazza di provincia deserta già alle 7 di sera, ignora il capolavoro dell'architettura gotica che incombe intimidatorio sui tuoi desideri repressi e pronuncia il terzo "ti amo" e mezzo della tua vita solo quando sei sicuro che la risposta non sarà soltanto uno stizzito "e io no", ma quanto meno la perifrasi di un rifiuto, la francamente superflua, nonché evidentemente arbitraria, proposizione avversativa in un periodo altrimenti perfetto e incontestabile, e cioè che voi due state benissimo insieme e che non c'è una ragione al mondo per cui anche lei non debba essere innamorata di te, chi ha qualcosa in contrario parli ora o taccia per sempre.
Ma.
Vai incontro alla bella morte, all'epica sconfitta che rimarrà scolpita nella storia: sei Puskás, sei Cruijff, gli altri sono Fritz Walter, ma Fritz Walter chi se lo ricorda più? That agony is your triumph e i cattivi perdono solo nei film. E allora prolungala all'infinito, quest'agonia. Abbassa le difese, bagna le polveri di tutti i tuoi attacchi, tira fuori una a una le parole che hai cercato di notte per dare un suono al silenzio dei giorni, dieci e lunghissimi, e utilizzale per innalzare un tempio a quel coraggio che in troppi per avere torto chiamano accanimento terapeutico. Opponi vanamente le ragioni del sì al sentimento del no, sorridi, ma non lasciare che rida lei, che sfoderi l'inconsapevole arma letale in grado di radere al suolo il tuo sintetico aplomb, di precipitare nell'oblio ogni promessa di buon senso, di annientare in un istante la lunga pratica dell'autocontrollo, di cui hai la sfacciataggine di andare perfino fiero. Non lasciare che rida e che quel sorriso smascheri ciò che hai maldestramente nascosto a te stesso fin da quando ci hai messo piede, in questa piazza di provincia deserta già alle 7 di sera: che tutto quello che vuoi fare ora coincide drammaticamente con tutto quello che non puoi fare, prenderla e baciarla, lì, in faccia al capolavoro gotico, senza domande e senza risposte, finché la fame, il freddo, il sonno e tutto il resto non vengano a chiedere di voi.
Goditi il silenzio.

Quella stessa notte, dopo mesi, ti ho sognato di un sogno spaventoso che non potrò mai raccontarti prima di averlo dimenticato. Il sollievo del risveglio, dovresti convincertene, dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che sì, forse tu hai ragione e io ho torto, ma sono davvero innamorato di te.

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Apnea

Mentre percorro la stessa strada che fece Siani quella notte – e che non mi porta a casa, ma per fortuna il viaggio si concluderà con un esito diverso – fumando avidamente la terza Lucky Strike in mezz'ora – grazie, Claudia, se proprio devo dirti grazie – e ascoltando una canzone che dice "l'inverno deve essere freddo", nonostante i 30 gradi al buio di una torrida notte d'agosto – sono sempre io, anche se lo scenario è surreale – mi rendo improvvisamente conto – non è vero, lo so da sempre, ma periodicamente m'impongo di dimenticarlo – che non sarò mai non dico felice, ma almeno tranquillo, finché non la smetterò di cercare risposte a domande che tutti, e intendo dire proprio tutti – a parte lui, ma è solo il personaggio di un romanzo – preferiscono lasciare inevase per sempre. Sepolte sotto chili – nel mio caso etti – di ricordi più o meno felici, di foto in cui sono tutti belli, di sentimenti ammazzati prima che diventino avvoltoi e si mangino il fegato.

Alla domanda che ho fatto a me stesso ho dato subito una risposta.
A quella che è rimasta nell'aria per un'ora, implicita in questo inatteso rendez-vous, la risposta l'hai data tu. E, uhm, insomma, come dire, gasp, che è quello a cui ho cercato di dare una forma nel delirante semi-monologo dell'ora successiva. Avrai davvero capito?
E l'unica consolazione, mi ostino a pensare adesso, dopo avertelo perfino detto, è l'assenza della novità: meglio lui che un altro.
Estate 2010, finisci ora, ti prego. E dammi tregua.

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Il nostro concerto

Se ti vestirai come Oliva Newton-John nel finale di Grease, ti guarderanno tutti, ma ti riconoscerò soltanto io. Camminerai barcollando verso di me, ma, senza occhiali, non riuscirai a schiacciare voluttuosamente la sigaretta sotto il tacco come Sandy. Al massimo centrerai una lumaca. Allora ti prenderò per mano e ti porterò lontano dal palco, dove non ci potrà vedere nessuno. Lì ti rimetterò gli occhiali e, nella migliore delle ipotesi, ti sfiorerò il viso.
Perché, che ti credevi?

E il tuo volto ha il colore
di un'estate fantasma
che hai lasciato senza fretta cadere
come un vestito
In un giorno qualunque

(questa me l'ero dimenticata colpevolmente)

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La rivoluzione sessuale

Io le amo e loro scompaiono nel nulla, con la sensibilità di un carrarmato russo a Budapest nel 1956.
Delle donne mi ha sempre attirato il lato maschile.

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Strenna

La Juventus non smette di perdere, Berlusconi è diventato un martire, la ragazza di cui sono innamorato mi ha detto di no e sono giunto alla conclusione che la cosa migliore da fare la domenica sia lavorare.
Babbo Natale, quest’anno hai l’imbarazzo della scelta.

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L’età dell’innocenza

E anche Stefano ce lo siamo giocato. Il bambino che venti anni fa condivideva con me i giochi più innocenti dell’infanzia e che soltanto cinque anni dopo si teneva ben strette le sue fidanzate ventenni è indiscutibilmente, definitivamente e irreparabilmente imborghesito.
Non ci ho messo molto a capirlo. Ci siamo ritrovati nello stesso posto, un enorme negozio di elettrodomestici affollato di clienti che amano farsi maltrattare da commessi brutali e afasici, e con lo stesso patetico obiettivo, comprare un decoder per il digitale terrestre senza il contributo statale che il governo ha riservato agli evasori fiscali di una certa età, come una specie di premio alla carriera. Ma – ed è qui che due percorsi a prima vista paralleli compiono entrambi uno scarto improvviso, ma in direzioni opposte – Stefano è lì per comprare un decoder alla madre, che altrimenti dal 14 ottobre non potrebbe più vedere Rai Due e Rete 4, io sono lì per comprare un decoder che permetta a me di vedere il posticipo della domenica sera anche in cucina, mentre strappo la pizza dal cartone con Eduardo, Totò e Troisi in copertina.
A questo punto le prove a mio carico sembrano già schiaccianti, ma, prima di stringere il cappio attorno al collo di un figlio degenere che mette la serie A davanti all’Italia sul due, occorre interrogarsi sulla vera natura di un uomo che adesso discetta con competenza di prese scart e sfida la temperatura tropicale del negozio parandosi di fronte a me con un pullover di cotone azzurro e un paio di inediti occhiali, il tutto a conferirgli l’aria (e soltanto l’aria) di un giovane assistente universitario di Fondamenti di microelettronica. Ma che, fino all’altro ieri, per me era soltanto l’ex amico d’infanzia che a 15 anni si era fidanzato con una ventenne. Con tutto quello che ne consegue, in particolare riguardo al disvelamento del mistero della fede.
Stefano non ha perso la sua vocazione, osservo mentre stringo la mano a quella che più che la sua metà mi sembra almeno la sua tre quarti. Alla quale mi presenta come "il mio compagno delle elementari", lanciandosi senza scrupoli in quella malinconica e involontaria rivisitazione mistificatoria dell’età prepuberale di cui abusano i trentenni che hanno partecipato a troppe rimpatriate del liceo.
"Veramente non mi sembra che alle elementari fossimo nella stessa classe", provo a sorprenderlo in un inatteso impeto di cattiveria gratuita che lo lascia senza parole. Solo per dieci centesimi di secondo, naturalmente, perché quelli come Stefano sanno sempre cosa dire e come dirlo e il mio ex compagno delle medie (come scoprirò solo tornando a casa e sfogliando l’album delle fotografie, perché un attimo fa ho bluffato) se la cava brillantemente mettendomi una mano sulla spalla e avvertendo il mondo intero che "l’importante è che ci conosciamo da più di vent’anni!".
Certo, ma non ci vediamo da quindici, cioè da quando la faccia d’angelo qui presente ha incominciato ad avere qualcosa di meglio da fare (vedi sopra), e la memoria dei cinque anni precedenti è affidata ai racconti di mia madre, che fissa il vuoto e ripete il classico refrain: "Ma come, non ti ricordi tutte le volte che ti ho accompagnato a casa di…?", dove i puntini sospensivi possono essere riempiti con un nome a piacere. No, non mi ricordo, e sono per giunta convinto che a casa di… mi ci accompagnasse mio padre.
"Eh eh, già, forse addirittura venticinque!", rilancio nostalgico, ammiccando verso la fidanzata di Stefano per insinuarle il dubbio che, in un passato lontano e a lei per sempre interdetto, io e il suo ragazzo, ma forse sarebbe meglio dire compagno o convivente, potremmo aver condiviso quelle tipiche esperienze di cameratismo maschile che trasformano un adolescente in un uomo, un giovane ingenuo e idealista in un adulto consapevole e in grado di assumersi le proprie responsabilità.
Come un puttan tour sulla Domiziana, per esempio.
Poi li saluto e li guardo andare via abbracciati, con in mano un decoder che impedirà loro di assistere alla finale di Champions League nello splendore del digitale. Dunque non posso far altro che compatirli. E chiedermi se l’unico modo per arrivare a trent’anni senza più il bisogno di porsi alcuna domanda sia averle esaurite tutte entro i ventidue.

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