Archivi tag: un mondo da cambiare

Death or glory

Si insinua il sospetto che la vicenda si concluderà quando qualcuno informato dei fatti mi denuncerà per circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.).

( – continua)

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Archiviato in post che forse avranno un seguito

Salute, amore, lavoro

Ricapitoliamo.
Il capo del personale, allungandomi di malavoglia il contratto di cinque mesi con cui da domani ricomincerò a lavorare dopo un mese di "pausa tecnica", mi ha invitato a non confidare nella speranza di un'assunzione a tempo indeterminato a partire dal primo luglio, "perché, lei lo sa, in questa fase l'azienda non se lo può permettere".
La ragazza di cui sono innamorato, dopo avermi indicato lucidamente le ragioni per cui lei no, tutte riconducibili a una e inoppugnabile, mi ha confidato che suo grande desiderio sarebbe che io mi liberassi da questo erroneo sentimento non ricambiato – erroneo, pare, prima ancora che non ricambiato – perché si possa ritornare finalmente "a essere quello che eravamo prima".
Il dentista, al termine di una truculenta estrazione del dente del giudizio, di cui sto ancora pagando le conseguenze in termini di salute fisica e, soprattutto, di appeal estetico, mi ha spiegato che, qualora in futuro il dente dell'arcata superiore sentisse la mancanza dell'ex gemello dell'arcata inferiore e tentasse surrettiziamente di prenderne il posto, "saremo costretti a tirare via anche quello".

A 20 anni mi hanno tolto le speranze, a 30 anni perfino le illusioni. Quand'è che mi toglierete anche il dolore e i desideri?

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Tana delle tigri

Fino alla primavera del 2003 ho fatto parte di un’associazione dedita alla truffa, al raggiro, al sopruso, alla corruzione delle anime, alla mistificazione della realtà, alla violazione sistematica di ogni elementare principio etico e regola di convivenza civile, insomma, a qualsiasi pensiero, opera e omissione il sentimento comune ritenga degno della qualifica di spregevole. Sebbene non fossi che un apprendista, solo in parte al corrente degli immondi segreti che la setta custodisce da secoli, la misura fu ben presto colma. Per ogni uomo arriva il tempo delle scelte definitive: a fine marzo di sette anni fa, infiammato dal fuoco degli ideali, decisi che nell’eterna lotta tra il bene e il male io mi sarei schierato nel campo della via di mezzo. Lasciai dunque quella congrega di malaffare nella convinzione che nessuno mai sarebbe venuto a cercarmi per reclamare la mia testa. Libero dalla logica della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, avrei potuto iniziare una nuova vita, dedicandomi a ciò che più mi stava a cuore: me stesso.
Ma era solo un’illusione. Il nemico si acquatta nell’ombra, si nutre di rancore, respira voglia di vendetta. Memoria d’elefante e pazienza di ragno, aspetta che la preda si dimentichi della sua esistenza. Poi azzanna.
O altre bolse metafore a caso.
L’Ordine degli avvocati ha avuto il coraggio di chiedermi il pagamento delle quote d’iscrizione arretrate, nonostante non metta piede in tribunale da più di sette anni.
E ci mancherebbe che lo facessi. Il tribunale di Napoli smentisce con la sua stessa esistenza ciò che invece sarebbe chiamato istituzionalmente a garantire: la possibilità di una società civile governata da leggi razionali approvate da assemblee parlamentari elette a suffragio universale da cittadini responsabili. Ma credo sia il caso di restringere il campo d’analisi e di concentrarsi sul core business di questo post, che nasce, cresce e muore con il solo scopo di insultare gli avvocati.

Non che io sia pregiudizialmente contrario a una categoria che si arricchisce sulle disgrazie altrui, sfrutta la scarsa scolarizzazione dei propri clienti fingendosi depositaria di inesistenti conoscenze tecnico-scientifiche e indossa ogni giorno giacca, cravatta e, non solo d’estate, perfino gli occhiali da sole (all’epoca gli auricolari bluetooth non erano ancora così diffusi). Anzi – primo e ultimo colpo di scena – mio nonno era avvocato ed è proprio attraverso la surrettizia alterazione dei fatti a proprio uso e consumo, nell’ormai desueta forma della lettera d’amore, che convinse mia nonna, una violinista genovese diplomata al conservatorio, a sposarlo e soprattutto a trasferirsi in un paesino della Puglia noto per non aver dato i natali ad alcun personaggio anche solo vagamente conosciuto al di fuori dei confini del paesino stesso, se si eccettuano i protagonisti semianalfabeti di un paio di truculenti casi di cronaca nera.
Poi venne mio padre, che si laureò in giurisprudenza, superò l’esame di abilitazione professionale e due minuti dopo chiuse lo studio di mio nonno, fuggendo a 400 chilometri di distanza dal suddetto paesino. E chiamalo fesso. Poi sono venuto io, che mi sono laureato in giurisprudenza, ho fatto 6 mesi di pratica, durante i quali ho imparato a stare in fila per due ore all’ufficio notifiche, e infine, nell’impossibilità di redigere una credibile relazione semestrale sugli argomenti di diritto trattati fino a quel momento – no, allungare il brodo con le storie scalcagnate che raccontavano i clienti del mio avvocato, mentre in un atteggiamento finto-confidenziale, con tanto di ammiccanti gomitatine, sorseggiavamo insieme un caffè al bar Lex, era fortemente sconsigliato – ho deciso di sparire improvvisamente dalla circolazione, simulando un’abduzione aliena. Se tra quarant’anni la città dovesse essere sconvolta da una serie di inspiegabili omicidi di avvocati, ehi, controllate l’alibi di mio figlio.

Di questi 6 mesi e basta di pratica forense, che con tutta probabilità sarebbero stati giudicati 6 mesi e basta anche dall’Ordine degli avvocati, se avessi utilizzato uno dei loro più famosi superpoteri, cioè l’orgogliosa esibizione di testimoni falsi, nel caso specifico per certificare il mio viaggio astrale a bordo di una navicella spaziale, restano vivi nella mia memoria pochi, indimenticabili, flash: un piano del tribunale completamente inagibile, adibito a deposito di faldoni relativi a cause intentate da persone morte non più tardi del 1987; la rancorosa malinconia del cancelliere, che, pur se in possesso della stessa laurea conseguita dalle altre due categorie più diffuse nei palazzi di giustizia, è costretto a svolgere un lavoro che definire un incrocio tra l’impiegato del catasto, il ragioniere comunale e il bidello è fargli un piacere; le due udienze alla settimana dei giudici, della durata di due ore l’una (due per due uguale quattro. Ore. Alla settimana); una causa tra una cubana che aveva infinocchiato un gonzo, convincendolo a sposarla a Cuba, e che ora chiedeva il riconoscimento del matrimonio in Italia, non esattamente nel nome dell’amore (noi difendevamo il gonzo); i rinvii delle udienze a babbo morto; le nobili parole d’incoraggiamento del mio avvocato ("L’unico motivo per fare ancora questo lavoro è che, come si dice a Napoli, anche il più scarso degli avvocati non muore mai di fame. Io comunque mia figlia la mando fuori"); la figlia dell’avvocato, appunto, diciottenne neostudentessa universitaria, di cui si favoleggiava la partecipazione a una festa di carnevale vestita da Pocahontas.

Ragazzi, la giustizia è malata, ma non sarà il rimborso di sette anni di quote associative da me ingenuamente evase a cambiare le cose. Al massimo potreste dare un’imbiancata alle pareti. Per un traditore come me ci vuole il pugno duro, una punizione esemplare: espelletemi dall’Ordine.
Giuro che non vi farò causa.

Belle and Sebastian – Legal man

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Il treno dei desideri

«Sì», rispondo, ed è l’ultima bugia dell’anno, perché la verità è che no, non uso sciarpe, per lo meno da quando sono capace di intendere e di volere: a sud di Roma, cioè al Sud, fa caldo e io la sciarpa l’associo alle brughiere del Devon e della Cornovaglia, a scenari da mastino dei Baskerville, con la nebbia a confondere le sagome di bucolici Jack gli squartatori appostati dietro cespugli ricoperti di rugiada. Ho una sola sciarpa, dal disegno scozzese, seminuova, nonostante sia stata acquistata circa 25 anni fa da mano ignota, probabilmente in occasione della nevicata dell’85, che ho tutta l’intenzione di rispolverare non appena mi trasferirò nelle Highlands.
Quando uno dei due regali che ricevi per Natale è un accessorio che indosseresti soltanto in un universo parallelo in cui gli sconvolgimenti climatici causati dai nefasti esperimenti delle multinazionali hanno trasformato il mondo in un’unica desolata landa di ghiaccio, abitata da uomini che si contendono a colpi di selci acuminate quelle poche amarissime bacche che crescono all’ombra dei pini silvestri, e il secondo (respirare: regalo) è un capiente trolley dal colore equivoco (ma forse alla moda), recapitato in ufficio da una compagnia petrolifera che quasi certamente ti ha confuso con il caporedattore dell’economia, qualche domanda incominci a portela. Cosa ho fatto di male negli ultimi dodici mesi? Quanti amici e parenti sono morti a mia insaputa? Quanti hanno subito i disastrosi effetti della crisi finanziaria? E se invece avessero soltanto trovato i negozi chiusi? Devo avvertire il caporedattore dell’economia dello scambio di persona?

«No», rispondo questa volta a una sola delle cinque domande precedenti, mentre osservo il trolley (ho già detto che è molto capiente? Ed è anche pieno di tasche) comodamente riposto nell’apposito scompartimento di un treno della speranza che mi sta riportando dalla Calabria a Napoli in appena sette ore, in tempo per il mio ennesimo giorno festivo di lavoro. Di fronte a me una ragazza bionda, con la quale vivrei una brevissima e intensissima storia d’amore, se non decidesse inspiegabilmente di dormire (o di fingere di) per tutta la durata del viaggio, in una specie di catalessi autoimposta per evitare qualsiasi contatto umano. Una scelta, la sua, che mi sembra figlia di una povertà morale e intellettuale sconfortante, di una chiara incapacità di relazionarsi col prossimo per trovare il necessario punto d’incontro. Ma poi sul treno salgono due anziani avviati verso un rapido processo di abbrutimento, che conoscono tutte le fermate da Paola a Salerno e addentano voracemente panini con la mortazza avvolti nella carta stagnola.

«La bellezza è verità, la verità bellezza. Questo è tutto ciò che sapete sulla Terra e tutto ciò che vi occorre sapere». Come se fossi un sedicenne, nel 2009 ho sfidato la solita infinita sequenza di bugie a colpi di schiaffi morali, nella folle e antistorica convinzione che prima o poi qualcosa debba infine tornare indietro. Qualcosa che non sia uno schiaffo, intendo.

Tiro fuori il trolley dall’anonimo cartone bianco, lo appoggio sulle gambe e lo apro: dentro ci sono un pandoro e un panettone, avvolti in due sacchetti di tela dorata.

Broken Social Scene – Anthems for a seventeen year-old girl

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Il fatto

Da oggi anche attraversare col rosso non sarà più come prima.
In guardia, zozzoni.

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Sputerò sulle vostre tombe

Io prevedo il futuro.
E so che un giorno neanche troppo lontano rimpiangerete perfino la Iervolino.

Lo stato maggiore del Pdl in Campania. No, davvero.

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Primavera di bellezza

Incomincia a insinuarsi in me il sospetto che l’imperativo morale di non svegliarsi mai prima delle 10 di mattina non sia più un motivo sufficiente a giustificare la scelta di un lavoro che ha superato di gran lunga l’avvocato nella classifica dei mestieri più disprezzati dall’opinione pubblica italiana. Avvocato che peraltro era l’unica alternativa credibile, da me scartata per uno sciocco pregiudizio riguardo all’essere pagati in prodotti della natura e strette di mano.
Una più attenta analisi del contesto socio-economico mondiale, ma soprattutto locale, avrebbe dovuto aprirmi gli occhi: è vero che la crisi è scoppiata soltanto nella seconda metà del 2008, ma quella della carta stampata risale almeno al 1954 (quando in Italia arriva la televisione) e quella del Sud al 1250 (quando in Puglia muore Federico II).
Con un approccio meno superficiale alla vita, ora sarei probabilmente felice, seduto al banco del mio avviato negozio di brugole a Bernareggio. Di sera, tornando a casa, lo sguardo andrebbe oltre i tetti delle modeste case in mattone tirate su da braccia forzute che hanno lavorato tutta la vita e si poserebbe sull’orizzonte increspato delle dolci colline brianzole e ancora più su, fino alla cima del Resegone (tutto attaccato).
Invece ho scelto la suburra e così le mie prospettive di una vita serena si fermano al 31 maggio 2010, quando scadrà un contratto che un’azienda in stato di crisi non può per legge rinnovare. E indovinate in che stato si trova l’azienda che mi ha assunto a termine? Bravi.
Lo stato di crisi è quello stato in cui capita d’imbattersi in lavoratori sessantenni sconvolti dall’eventualità di essere costretti ad andare in pensione con una cifra pari all’80% dell’ultima retribuzione e infuriati contro lavoratori trentenni precari che nella migliore delle ipotesi dovranno lavorare altri 35 anni per andare in pensione con una cifra pari al 50% della media di tutte le retribuzioni percepite in carriera.
Ok, questa è difficile per chi ha meno di 25 anni (ciao ragazzi, sappiate che calvizie e osteoporosi esistono veramente).
Allora diciamo che, nel migliore dei mondi possibili, cioè quello in cui è previsto che io riesca ad accumulare i contributi necessari per arrivare alla pensione, se dopo aver compiuto 65 anni volessi togliermi degli sfizi, come mangiare la carne una volta alla settimana e andare al cinema una volta al mese, sarei costretto ad aprire un negozio di brugole a Bernareggio.
La vita si differenzia dal Monopoli perché sceglie sempre le vie più tortuose per ricondurti al punto di partenza.
"Vogliono cancellare un’intera generazione di liberi giornalisti!", è l’enfatico grido d’allarme della… uhm… mitica classe ’50, che cerca un improbabile riscontro nei volti allibiti di chi si è appena sentito dare implicitamente del servo.
La vita prende e la vita dà, ma se hai la ventura di essere nato tra il 1974 e il 1980, sai che la crisi cammina con te e che la solidarietà tra le generazioni funziona solo quando tuo padre è pronto a rinunciare alla liquidazione per lasciarti il suo posto in banca.
Una soluzione che tutto sommato non disprezzerei, se ne avessi la possibilità. Tanto la voglia di alzarmi dal letto non ce l’ho neanche quando mi sveglio alle 11.

Pavement – We are underused



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Le mani sulla città

‘A faccia toia è calamita ‘e paccheri.
‘A panza toia è fodera ‘e curtiello.
Gente, arapit ‘e ‘mbriell’ ca stanott’ chiove sang’!
‘Na mamma adda chiagnere e sta mamma nunn’è ‘a mia!


La cosa migliore che possa capitare il sabato sera a Napoli è venire investito da una Smart psichedelica che percorre contromano una corsia preferenziale occupata per metà da macchine in divieto di sosta che non hanno trovato posto sul marciapiede.
Il sabato sera a Napoli è uno spot contro la vita di provincia, che non offre alcuno svago a tonnellate di ragazzi comprensibilmente esuberanti che per sette giorni attendono di mettere alla prova in città la loro naturale predisposizione a violare tutte le regole della convivenza civile stancamente accumulatesi nel corso di secoli di evoluzione umana. Tenendo conto che in ogni caso solo parte delle suddette regole è riuscita a imboccare l’A1 e a trovare casa a Napoli a un prezzo accessibile.
La città diventa così il palcoscenico su cui giovani disillusi mettono in scena le loro frustrazioni, direi se fossi un sociologo.
Rinchiudeteli nella gabbia dei leoni, con i leoni dentro, puntualizzerebbe invece un vecchio reazionario nostalgico di Achille Lauro, seduto nel posto riservato agli invalidi del tram linea 1, da piazza Vittoria a emiciclo Poggioreale. Vecchio al quale, per una sola sera alla settimana, sceglierei di accodarmi, scendendo però una decina di fermate prima del capolinea.
Il consiglio per i più audaci è quello di mettersi al centro di una piazza qualsiasi, in perenne attesa di qualcuno che non arriverà mai – dove l’ipotesi che quel qualcuno non arrivi mai è essenziale per la buona riuscita dell’esperimento – e provare a schivare gli sputi lanciati al volo dai centauri che sfrecciano in groppa a scooter taroccati.
Il sabato sera a Napoli conviene non andare in giro da soli: la virilità si taglia a fette, una delle quali potrebbe essere la vostra pancia, qualora vi azzardaste a posare lo sguardo sull’ultima delle strappone munite di vandalo personale che attraversano la strada caracollando sui loro stivali bianchi. Non tanto per fissarle le cosce, quanto per rimpiangere i tempi in cui la parola gusto non era soltanto il titolo di una rubrica enogastronomica del Tg5.
Da est a ovest, da Ponticelli a Pianura, l’imperativo della serata è riuscire a dimostrare alla propria ragazza, presente o futura – passata no, perché chella è ‘na zoccola – che ha fatto la scelta giusta, che al suo fianco c’è un uomo vero. Un uomo, cioè, che fa le tipiche cose da uomo: parcheggiare in terza fila, fare battute a sfondo sessuale, scatenare risse per futili motivi.
Anche gli uomini migliori diventano peggiori, dal caos non nasce una stella danzante, ma al massimo un’inestricabile distesa di macchine che striscia lentamente al suono dell’ultimo tunz tunz.

Napoli, 1995, un sabato sera di un mese d’inverno, esterno notte.
Quattro giovani di buona famiglia, poche pretese e modesto impatto sui destini della loro generazione escono dal cinema e si avvicinano all’auto di uno di loro, l’unico diciottenne. Il secondo è biondo, il terzo è smilzo, il quarto sono io. Li raggiunge un uomo, giovane anch’egli, ma già sufficientemente energumeno.
Dice: mi avete graffiato la macchina.
Dico: veramente quando abbiamo parcheggiato la tua macchina non c’era ancora.
Chiosa: zitto, quattrocchi.
E si allontana con la sua fidanzata, aggiustandosi gli occhiali che non calzano bene sul naso.

Los Campesinos! – Miserabilia

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Finale di partita

Walter, isn’t it a shame the way our little world has changed?
Do you remember, Walter, how we said we’d fight the world so we’d be free?
 

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Poste italiane

Presentazione in dogana  2,50 €
Spese postali  3,00 €
Iva  5,69 €
Totale  11,19 €

Poi dice che non è un regime.

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